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Collana Storie che curano

“Ho avuto modo di notare che chi si è formato fin dall’infanzia un senso del racconto è in condizioni migliori rispetto a chi non ha avuto storie, non le ha udite, lette, recitate o inventate […].
Si sa quanto possano le storie, come possano costruire dei mondi e trasporre l’esistenza in questi mondi; si conserva un senso del mondo immaginale, della realtà persuasiva della sua esistenza, del suo essere popolato, del potervi entrare e uscire, del suo essere sempre là, con i suoi campi e i suoi palazzi, con le sue celle segrete e i lunghi bastimenti in attesa. Si impara che i mondi sono fatti anche con le parole, e non solo con i martelli e i fili metallici”.
J.Hillman, Storie che curano

Molto di frequente incontriamo persone che faticano a produrre o a raccontarci le loro fantasie, le loro rêverie, i loro sogni ad occhi aperti e chiusi, persone non abituate ad immaginare, bambini che faticano a raccontare o adulti che nascondono in se stessi bambini a cui le storie non sono state raccontate.
Il terapeuta, in queste situazioni, è chiamato più che in altre occasioni ad essere co-narratore, ad aiutare il paziente negli aspetti immaginativi ed a volte a riempire la seduta con la propria fantasia, stando attenti a non ingabbiare la scarna narrazione che il paziente riesce a donare leggendola come un problema, ma al contrario a potenziarla.
Lo psicologo “sarebbe impegnato ad assolvere il compito essenziale, che non è solo [aggiunta mia] di interpretare, né di tradurre il materiale nella ragion pratica né di rafforzare l’io: egli dovrebbe piuttosto incoraggiare, sedurre, sospingere questo processo della fantasia a proseguire ulteriormente”. (Hillman, Trame perdute, 1985)
La terapia o qualsiasi dispositivo di riflessione è favorito da forme narrative [l’uso di immagini, la fotografia, il cinema, il racconto, lo storytelling, l’autofiction] utilizzate come LIEVITO : lievito che fa crescere la capacità di simbolizzazione, che permette lo sviluppo della CONVERSAZIONE e che fa crescere la relazione stessa.

“non mi pare esagerato affermare che il lavoro che si svolge al confine tra preconscio e inconscio costituisca il nucleo di ciò che per un essere umano significa essere vivo. Quel confine è il luogo in cui avviene l’esperienza del sogno e della reverie; in cui ha origine ogni tipo di gioco e creatività; in cui germogliano l’intelligenza e il fascino che poi (come se venissero dal nulla) trovano sbocco in una conversazione, una poesia, un gesto o un’espressione del viso; è il luogo in cui nascono quelle situazioni di compromesso che non smettono mai di tormentarci, che ci svuotano della nostra linfa vitale e limitano la nostra libertà offrendoci in cambio un po’ d’ordine e un’illusione di sicurezza”. (T.H.Ogden “conversazioni al confine del sogno” Astrolabio, 2001).

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