THE WISE BABY, rivista del rinascimento ferencziano, è organo della Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia “Sándor Ferenczi”.
Società Italiana di Psicoanalisi e Psicoterapia Sándor Ferenczi SIPeP-SF
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indice:
7 Carlo Bonomi & Gianni Guasto
Editoriale
11 Cathy Caruth
Restituire alla morte ciò che è della morte. Intervista con Robert Jay Lifton
31 Pumla Gobodo–Mandizikela
Trauma, perdono e la danza del testimoniare: ovvero come restituire intimità agli spazi pubblici
49 Clara Mucci
Agli estremi della mente, ai limiti del corpo: trauma massivo, distruzione della connectedness e intimità difficile nelle testimonianze della Shoah
73 Andrea Ciacci
Il migrante ben accolto. Trauma, narrazione e qualità dell’accoglienza
87 Adele di Florio
Migrazione. Quando gli emigranti eravamo noi
recensioni
101 Riscoprire Pierre Janet. Trauma, dissociazione e nuovi contesti per la psicoanalisi, a cura di Giuseppe Craparo, Francesca Ortu e Onno van der Hart
107 Contagi, di Liliana dell’Osso
Presentazione del Vol 4 n°01 del 2021
Editoriale di CARLO BONOMI & GIANNI GUASTO
Con questo numero, che ci introduce alla terza tappa della Trilogia del Trauma (ovvero del Trauma sociale, dopo il Trauma relazionale infantile e il Trauma da maltrattamento e abuso), affrontiamo le sfide poste dal trauma che colpisce intere popolazioni, etnie, gruppi sociali, soggetti perseguitati in base al colore della pelle, alla religione professata, all’appartenenza culturale, al credo politico, all’orientamento e all’identità di genere, ai problemi derivanti dai fenomeni migratori, nel tentativo, troppo spesso coronato da successi almeno parziali, di compiere veri e propri genocidi. Il titolo ci dice subito ciò che qui è in gioco: la rottura dell’umano, ossia dell’orizzonte di senso che ci fa sentire uomini. Qualcosa cioè che risulta incomprensibile se si ricorre al dispositivo istintuale, come in definitiva fa il concetto di “istinto di morte”. Spogliando l’uomo della sua umanità, il trauma sociale ci fa di colpo capire come questa sia radicata nel mondo simbolico e si nutra di significati, come ben spiegato nell’intervista a Robert Jay Lifton con cui si apre il numero. Condotta da Cathy Caruth1, e intitolata “Restituire alla morte ciò che è della morte”, questa intervista riassume in modo semplice il pensiero di uno dei principali autori della fondamentale riflessione sul trauma massivo che si è sviluppata nella seconda metà del Novecento, sulle ceneri della Shoah, della bomba atomica che ha distrutto Hiroshima, e delle stragi nei villaggi durante la guerra del Vietnam.
Questi autori, Lifton incluso, riprendono tutti, senza mai citarlo, il concetto ferencziano di trauma come incontro con la morte, morte dell’anima, o morte parziale, al punto che è difficile dire se non conoscessero il suo scritto postumo “Pensieri che scrivono tutti negli anni in cui l’insegnamento di Ferenczi era ancora bandito, semplicemente non poteva essere citato. Comunque sia, una serie di punti nodali messi a fuoco dall’ultimo Ferenczi si ritrovano nella riflessione di Lifton, come il rapporto fra trauma e numbing (che in Ferenczi è descritto come il diventare “insensibile” di una parte di sé distrutta) e la funzione della testimonianza nel dare un senso alla morte, nel tentativo di rendere pensabile e simbolizzabile la rottura traumatica. Particolarmente importante ci pare la possibilità di invertire il processo di simbolizzazione attraverso la “falsa testimonianza”, la quale si presenta come una traumatizzazione di secondo livello.
A seguire, il contributo della psicologa clinica e docente universitaria sudafricana Pumla Gobodo-Madikizela, intitolato “Trauma, perdono e la danza del testimoniare: ovvero come restituire intimità agli spazi pubblici”.
Nell’articolo, l’Autrice esplora il concetto di perdono come risposta a gravi violazioni dei diritti umani. Considerando gli effetti di un trauma massiccio in relazione a ciò che ella chiama “gli affari in sospeso” del trauma, prende in esame, con strumenti psicoanalitici, il processo di “testimonianza” del trauma, osservando come esso apra la possibilità di espressioni reciproche di empatia tra vittima e carnefice, attraverso lo sviluppo del rimorso da parte dei carnefici e del perdono da parte delle vittime, ottenuti attraverso l’esercizio dell’empatia. Utilizzando un caso di studio del TRC – Truth and Reconciliation Commission, del Sudafrica, chiarisce la relazione tra empatia e perdono, e mostra come il modello riparatore della TRC possa aprire uno spazio etico e creare la possibilità di trasformazione per vittime, carnefici e parti terze.
Testimone impegnata fin dagli studi liceali dell’Apartheid sudafricano, La Gobodo Mandikizela ha conseguito il proprio PhD presso l’Università di Capetown, ottenuto dopo la liberazione di Nelson Mandela, evento che le permise di visitare per la prima volta Città del Capo. I suoi studi sul trauma storico e sul tema del perdono le hanno consentito di approfondire il tema dell’impatto delle esperienze di deumanizzazione, e della trasmissione transgenerazionale del trauma sociale.
Con il contributo “Agli estremi della mente, ai limiti del corpo: trauma massivo, distruzione della connectedness e intimità difficile nelle testimonianze della Shoah”, Clara Mucci ritorna su un tema a lei molto caro, già oggetto di opere felicemente apprezzate in patria e all’estero.
Il tema della connectedness, figlio del concetto bowlbyano di “attaccamento sicuro” viene messo a confronto con tutte le esperienze deumanizzanti che hanno il demoniaco potere di estirparlo dall’anima delle vittime, attraverso il raggiungimento di un livello di solitudine di grado zero, dal quale sono scomparsi nome, identità, strumenti del vivere quotidiano appartenenti alla sfera dell’umano (come per esempio i cucchiai negati ai prigionieri dei campi di sterminio, al fine di ridurli allo stato di chi si nutre alla maniera delle bestie).
Di fronte a tanta devastazione, e in antitesi ad essa, il concetto di connectedness consiste nel mantenimento della diade empatica che si forma nei soggetti affettuosamente accolti alla nascita (i figli di madri, per dirla con Winnicott, “sufficientemente buone”) e che deriva dalla relazione materno fetale e dai suoi succedanei.
Essa consiste nella disponibilità ambientale di “altri significativi” e nella capacità empatica di mantenersi in relazione con essi.
L’attaccamento sicuro è quindi il principale fattore di resilienza grazie al quale si forma un solido oggetto interno che dipende dalle reali condizioni di accudimento e da presenza o assenza di altre precedenti traumatizzazioni.
Il processo di alienazione e programmatica disumanizzazione dell’altro è invece alla base della condizione nella quale il traumatizzato stesso perde la capacità di essere “testimone” della propria traumatizzazione (Laub, 1992). In tali situazioni di trauma da mano umana, l’oggetto interno è irrimediabilmente attaccato e a fatica potrà essere riportato alla luce, con pratiche terapeutiche ma anche grazie a pratiche di ricostruzione, risignificazione della propria storia e reinclusione in un gruppo sociale significativo.
Un numero dedicato ai traumi collettivi e alla sopravvivenza, non poteva mancare di affrontare uno dei temi più spinosi dell’odierno dibattito sul trauma massivo: ed è il tema dei fenomeni migratori.
Con l’articolo “Il migrante bene accolto. Trauma, narrazione e qualità dell’accoglienza”, lo psicoanalista Andrea Ciacci, direttore di un centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo, mostra come una buona accoglienza da parte di un ambiente supportivo costituisca un presupposto necessario affinché i migranti possano iniziare a esprimere quelle parti della loro storia cariche di maggiore sofferenza e talvolta dissociate al punto di una difficile o assente narrabilità, così come a ritrovare quel senso e quella continuità della propria esperienza capace di mobilitare il loro investimento in un nuovo progetto di vita nel Paese di accoglienza.
Con “Migrazione. Quando gli emigranti eravamo noi”, un lavoro estremamente denso di partecipazione emotiva, Adele di Florio ripercorre il dolore provato al cospetto di un episodio di violenza razzista e il ricordo di essere stata oggetto di discriminazione, durante una vacanza trascorsa in Svizzera assieme a coetanei, perché italiana. Tutto ciò viene ricollegato alla tragedia degli emigrati italiani in Svizzera e in Germania, oltre che di quella degli emigrati meridionali al nord.
In una disamina puntuale e ottimamente documentata, l’Autrice riporta numeri e condizioni di vita di quelli che furono gli italiani ridotti a condizioni sub-umane (“Volevamo delle braccia, sono arrivate delle persone”, dirà lo scrittore svizzero Max Frisch), il cui cinico baratto con adeguate quantità di carbone servìalla ricostruzione italiana del dopoguerra, fino a sfociare nella tragedia di Marcinelle che pose fine all’indegno commercio di braccia, nella quale morirono 262 lavoratori di cui circa la metà italiani.
Il numero si conclude con due recensioni, entrambe di Gianni Guasto: nel volume “Riscoprire Pierre Janet. Trauma dissociazione e nuovi contesti per la psicoanalisi”, curato da Giuseppe Craparo, Francesca Ortu e Onno van der Hart, si propone all’attenzione del lettore italiano la figura di un altro grande “dimenticato” dalla storia della psicopatologia delle esperienze dissociative del Novecento. L’insegnamento e il lascito di Janet vengono declinati in una molteplice serie di variazioni e proposte scientifiche che comprendono sia svariate riletture dell’opera dell’Autore nelle sue relazioni con i contributi freudiani, junghiani, dei teorici delle relazioni oggettuali, fino al confronto con autori come Bromberg e con i contributi della psicotraumatologia contemporanea, per arrivare all’influenza janetiana sulla psicoterapia odierna e sulle attuali riflessioni su eziologia, patogenesi e terapia dei disturbi dissociativi.
La seconda recensione riguarda il volume di “Contagi”, scritto da Liliana dell’Osso in collaborazione con Dario Muti e Daniela Toschi. In esso, l’Autrice tratta a lungo il tema del contagio e del doloroso vissuto della pandemia che abbiamo appena attraversato. Concludono il volume una riflessione storica di Dario Muti sul contagio come “concetto totale” attraverso la rievocazione delle grandi pandemie della storia, e la psicobiografia del pittore Edvard Munch, scritta da Daniela Toschi.